I Nostri Campioni

patrizio

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I NOSTRI CAMPIONI


Ribot, il cavallo imbattibile

Il 27 febbraio 2007 cadde il 50esimo anniversario della nascita di Ribot. Vi riproponiamo il viaggio nei luoghi simbolo della storia del più forte galoppatore della storia pubblicato dalla Gazzetta in quell'occasione
LEXINGTON (Kentucky, Usa) - Che il Kentucky sia terra di cavalli te ne accorgi da 2000 metri di altezza, mentre lo sorvoli con il piccolo aereo della Delta: recinti, fattorie, prati di un verde intenso, a perdita d' occhio. Sensazione che rafforzi con le decine di foto di cavalli, che pendono a ogni lato del piccolo aeroporto di Lexington.

Dicono che sia per via del tipo di terreno, estremamente permeabile: l' acqua penetra, non ci sono pozzanghere, che incoraggerebbero la riproduzione di feroci stormi di zanzare, e favorisce invece la crescita di un' erba altissima e nutriente, che definiscono "blue grass" per la sua tonalità scura.
Dicono che per i cavalli sia come pasteggiare a caviale e champagne ogni santo giorno. E così nel corso dell' ultimo secolo e mezzo han tirato su più di 1500 fattorie. Cavalli, a decine di migliaia. Ma anche università e relative squadre di basket: l'economia del Kentucky sta tutta qui.

Parigi, dicembre 1956: la vittoria di Ribot all'Arc de Triomphe
E' qui che Ribot è venuto a trascorrere più di metà della sua vita e a morire. Pochi minuti di auto dall' accogliente "Blue Grass Airport", numero 3225 della lunghissima Old Frankfort Pike: Darby Dan Farm. Una delle più grandi fattorie della zona, 700 acri, una distesa di verde e di recinti bianchi ben pitturati, una costruzione stile coloniale in cima a una collinetta. Sembrerebbe il posto ideale per tirarci su una casa di riposo.

Invece è il regno di cavalli bellissimi. C' è ancora chi corre, ma la maggior parte sono lì per dare il loro contributo di stalloni, trattati come Lord, anzi, come "Sire". Ribot dal 1960 al 1972 è stato uno di loro. "Non uno qualunque: il migliore".

La puntualizzazione è di John Phillips, 49 anni, comproprietario di tutto questo bendiddio. Era stato suo nonno, John Galbreath, nel 1957 ad acquistare dal colonnello Bradley, il fondatore di "Idle Hour", allora nome della farm. Racconta Phillips: "Mio nonno aveva il pallino per i cavalli stranieri, allora uno dei pochi a pensarla così negli Usa.

Aveva sentito tante storie su Ribot e decise di fare un' offerta. La risposta non gli piacque: "Ribot non è in vendita", si sentì dire. Ma mio nonno era uno cocciuto, da buon americano insistette. Così con i marchesi Incisa, si accordarono per un "leasing": mio nonno avrebbe affittato il cavallo. Prima tre anni, poi altri cinque. Quindi la storia dell' aereo che Ribot rifiutò di prendere. Mio nonno tirò fuori 2 milioni di dollari (1,5 miliardi di allora ndr). Per quell' epoca una cifra impressionante".
Ribot diventò il miglior stallone in circolazione.

Aveva vinto sempre quando correva e vinse ancora con le sue prestazione di maschio doc: i suoi trionfi da "sire" sono un' altra lunga lista nel suo palmares. Anni fa scrivevano che i suoi figli e le sue figlie avevano vinto più corse classiche di qualsiasi altro stallone vivente. Così a Ribot, in un pezzo di prato, la famiglia Galbreath, ha fatto la tomba: per un cavallo, un privilegio raro.

C' è la sua, con al fianco quelle dei suoi figli prediletti, His Majesty e Graustark, fratelli di sangue (stessa madre, Flower Bowl), due grandi campioni. E più in là ci sono le lapidi di Roberto e Star De Naskra e la statua di Black Tony. Soltanto cinque steli, per migliaia di cavalli transitati alla Darby Dan, roba esclusiva per i campioni più celebrati

«Ribot era il migliore - insiste Phillips -. Per la mia famiglia è stato uno dei cavalli che maggiormente ha contribuito al successo della nostra farm". Ventimila dollari a monta, anche tre volte al giorno, per quei tempi, cifre strepitose. "Pensi che oggi prendiamo ancora quella cifra lì, ma trent' anni fa era una follia".
I ricordi di Phillips sono quelli di ragazzino: "La fama di Ribot fece il giro di tutta l' America: era uno stallone "very hot", dicevano che fosse anche mezzo matto. Fa tutto parte della sua leggenda. Era facilmente eccitabile, e sempre propenso a combattere con gli altri. Era aggressivo, come se ci tenesse a far sapere chi era il boss. Gli costruimmo un box speciale per la monta, tutto per lui, come una camera da letto privata.

Ma ci entrò una volta sola. Voleva stare in mezzo agli altri e comandare". Il suo regno è stato una stalla di 4 per 5, con due finestroni. C' è sulla porta ancora il suo nome e le travi alte, sono scheggiate dai suoi denti: "Si alzava sulle zampe e mordeva quelle assi», ricorda Phillips. E pare che solo Floyd Senders, il vecchio groom di colore, che lo accudiva, riuscisse a calmarlo.

Così racconta almeno Gene Palmer, 80 anni, costretto a respirare con l' aiuto dell' ossigeno, allora il general manager: «Floyd era bravo con Ribot. Ma doveva essere l' ultimo a uscire dalla stalla, altrimenti non lo tenevi, faceva il matto, saltava sulla staccionata, si appoggiava ai legni e in più di un' occasione li aveva tirati giù

. Così dovemmo costruirne di più alti e mettere dei sacchi di sabbia come rinforzo". Ricordi e memorie si intrecciano alla leggenda, esattamente come succede quando si evoca una persona amata, che adesso non c' è più da molto tempo. Ribot se n' era andato in una mattina di maggio di trent' anni fa, coliche intestinali, la vecchiaia. L' iscrizione sulla sua tomba mette brividi di tenerezza: «1952-1972, qui giace un campione mai sconfitto». Come si confà ai miti. Nel Kentucky, che fosse solo un cavallo ha poca importanza.
Massimo Lopes Pegna
isypan
 
00 10/10/2010 23:42  
I NOSTRI CAMPIONI
STORIA DI SIRLAD CAVALLO SCONFITTO SOLO DAL DESTINO
Repubblica — 24 luglio 1985 pagina 34 sezione: SPORT


SIRLAD, l' ultimo grande crack italiano (dei cavalli allevati non soltanto allenati in casa nostra, intendo dire) non ha avuto fortuna: nel tunnel dei ricordi, ha conservato il fascino del cavallo sfortunato. Purosangue principesco, aveva vinto il 94 Derby.

Aveva battuto l' avversario diretto, Capo Bon, di nove lunghezze. Quando sulla dirittura delle Capannelle aveva staccato il suo volo, la folla (esagerando) aveva fatto il nome di Ribot. Sirlad, che era un cavallo giocoso, era stato svegliato da Di Nardo, il fantino, con un solo colpo di frusta.

Aveva eseguito un cambio di velocità, allungando la falcata. Dagli zoccoli di Sirlad partivano palpebre di prato: erano zolle, che arrivavano come cazzotti sul muso di Capo Bon. Il disgusto di Capo Bon, per la verità, era durato poco perchè Sirlad era scomparso all' orizzonte con tempi di galoppo, che erano salti di dieci metri.

Mansuefatto dalla fatica, Sirlad era rientrato nel recinto del peso non senza avere drizzato le orecchie, messo in allarme dagli applausi, dal brusìo del pubblico. La sua galoppata aveva fatto tornare la folla indietro di vent' anni almeno. Non era il Derby ad indurre i patiti all' immagine di Ribot (perchè il Derby, a causa della mancata iscrizione della fattrice, come imponeva allora la formula, Ribot non l' aveva disputato) e nemmeno la giubba chè quella di Ribot era la famosissima casacca bianca crociata di rosso di Dormello

. Neanche il mantello era di Ribot - questi era baio e Sirlad un sauro. Nè la mole: Ribot era apparentemente piccolo o Sirlad apparentemente... vasto. Era piuttosto lo stile di corsa: la galoppata isolata, con gli altri disseminati, sperduti per la pista.

Il modo, insomma. Sirlad eguale a Ribot, si diceva. Sirlad eguale a Nearco, si sussurrava. Sirlad è eguale a Sirlad, mi aveva detto quindici giorni prima del Derby, a San Siro, il suo allenatore, Gaetano Benetti. Era una sera di aprile. Le corse erano finite da poco. Gaetano Benetti mi aveva invitato all' ultima ispezione di giornata delle sue scuderie, che hanno il vecchio incanto delle costruzioni di un tempo. Una testa che si allungava dalla finestra del box: una testa ingentilita da una lista bianca.

Sirlad. A rassicurarlo c' era l' uomo che lo curava e Wamadio, il cavallo che gli faceva da gregario. "Le presento Sirlad e Leopoldo, sorrise Benetti. Leopoldo Cancioni da Napoli". Sirlad ci guardava con un occhio attento, buono. "Vede - mi spiegava Gaetano Benetti - certi cavalli hanno un occhio che pare un bottone, un bottone ricucito sul muso. Ne diffidi. Non vedrà mai un vincitore con uno sguardo stupido. Osservi Sirlad".

"Un cristiano, era intervenuto l' artiere. E' allegro, stia attento. Poichè ci ha simpatia... pizzica". Sirlad sembrava indaffaratissimo a cercare qualcosa nelle tasche del mio impermeabile. Ma questi belli a quattro gambe, mi chiedevo, saranno davvero molto più d' una espressione fisica. "Lo sono, lo sono, assicurava Gaetano Benetti. Fanno una vita forse monotona, regolata dalle rigide leggi della scuderia ma afferrano il senso della corsa: e la affrontano, secondo il temperamento, con sicurezza o con freddezza, con generosità o con dispetto. Il crack ha testa. Capisce ciò che gli si chiede".

La cesta dei ricorrdi venne rovesciata davanti al box di Sirlad, che cercava le carote di cui era ghiotto. A Gaetano Benetti, quegli episodi autentici, dovevano essere stati raccontati da Mario Benetti, suo padre, grande allenatore e maestro, uomo di assoluta probità, uno di quegli uomini a cui potresti affidare l' educazione di tuo figlio. Seppi di Niger, di Radice Fossati, che tentava di addentare il cavallo che lo superava: e di Crapom, che nel G.P. di Ostenda, faceva ammattire Paolo Caprioli, che lo doveva reggere sulla linea di corsa mentre lui, Crapom, aveva deciso di deviare perchè voleva mordere lo stivale del fantino Brether, che montava Gris Perle, reo di averlo colpito involontariamente con la cravache.

E ancora, di Nearco, che, nel paddock dell' allevamento, costringeva i compagni contro lo steccato, allargando vieppiù i cerchi del suo galoppo, in tale modo affermando la sua autorità di capomandria. E di Ribot, che, a Parigi, vide un cavallo scosso, Hidalgo, che aveva disarcionato il suo cavaliere. Ribot scappò via sostenuto da Camici, per vincere l' Arc ma anche per osservare da vicino quell' intruso e liberarsene. La fama di Sirlad era avanzata e avanzava, fuor dai confini della scuderia, nella fantasia degli italiani.

Con Gaetano Benetti ho una consuetudine amichevole. Gaetano ha sempre avuto in simpatia chi ama i cavalli. Gli facevo visita, cercando di non importunare lui e il suo allievo Sirlad. La porta della scuderia dei Benetti era aperta alla speranza. "Nel Criterium, a due anni, diceva Benetti, Sirlad è balzato dalla quinta alla prima posizione, allungandosi non appena ha veduto la luce davanti a sè. Ha vinto il Filiberto, il Derby". Il Milano, sarà il test per le King George Stakes ad Ascot. E tu che ne pensi, Tonino?

E Tonino Di Nardo, il fantino: "Io non ho mai montato un cavallo così importante". Imparavo quanto fosse arduo lavorare questa delicata materia viva (il purosangue) che reagisce, che si inalbera, che si accascia, che bisogna sostenere con la punta dei nervi, sempre. L' indomani del Derby, Sirlad valeva già un miliardo e mezzo (1500 milioni del ' 77). Le speranze erano enormi, giustificate. Anche gli astri deponevano a favore di Sirlad. Le riflessioni della "selleria", le conoscevo

. Le premesse c' erano tutte. Il proprietario l' ingegner Oddino Pietra, industriale bresciano, che obbedisce, digiuno d' ippica, a una felice ispirazione: compra La Tesa, la tenuta che i signori Crespi (Razza del Soldo) liquidano. L' ingegner Pietra che induce Enrico Fanti, un talento, il direttore dell' allevamento, a rimanere. Fanti, che desidera per le nozze della fattrice Soragna, lo stallone americano Bold Lad: e l' agente Eugenio Colombo che gli procura, negli States, la monta di Bold Lad. Nascita di Sirlad. Nè basta: il proprietario, come soltanto si legge nella favola dell' ippica, che lascia fare, che non mette il naso indagatore in scuderia, che ascolta e obbedisce all' allenatore.

(Poi non accadrà più: lo fuorvieranno le amicizie degli snob). Il clan aveva, dunque, ragione di credere in Sirlad. FINI' LA SUA CORSA IN USA ERA ormai deciso. Nel Gran Premio di Milano, l' imbattuto Sirlad avrebbe affrontato Infra Green, una cavalla francese di qualità. La grande attesa, cominciava qui. Ogni uscita di allenamento di un crack, si sa, è un' autentica corsa. Non può essere altrimenti. Il crack mette fuori uso l' accompagnatore. Il povero Wanadio sventolava la sua criniera già come una bandiera di resa. Il batticuore in scuderia era continuo, anche se il cavallo lavorava benissimo in pista grande. L' infarto, mi confidava Benetti, qui, è dormiente.

"Lei, all' alba, apre la porta del box e teme di vedere il suo crack in contemplazione dell' avena, che non ha toccato. Occorrono, poi, mesi per ricuperare uno, due lavori compiuti". Quale introduzione al "Milano", venne scelta un' uscia pubblica, sui duemila metri, ossia una corsa. Sirlad vince: arrivo, però, non bellissimo. Il "Milano" finalmente. Fu un "Milano" record: 2' 26" 1/5 sui 2400 metri di San Siro, che non regalano niente a nessuno. Un tempo americano.

Un Gran premio formidabile. Infra Green seguiva come un' ombra Sirlad scatenato per attaccarlo con inaudita violenza, a 600 metri dal palo. Sirlad, provocato, reagiva con adeguate accelerazioni. La spuntava di tre quarti di lunghezza. Nel dopocorsa molti visi scettici. "E' un grande cavallo ma con Ribot non c' entra" diceva il veterinario Bassignana. "Rimandi di un anno Ascot", consigliava Vittadini. "Quella femmina malvagia, imbottita di vitamine" protestava lo scudiero di Sirlad, rivolto a Infra Green, che nitriva pur essa indispettita. Viaggio fastidioso, in aereo. Ascot.

Lavori affascinanti: il sauro rubava l' occhio: una massa di sei quintali, racchiusa da una linea di rara bellezza, scatenata a settanta orari, che il fantino trattiene a malapena. A una settimana dalle King George Stakes, il galoppo di Sirlad, che calamita il verde della pista, tradisce uno sgarro lieve, che non sfugge all' occhio esperto di Gaetano. Schinella ovvero un' incrinatura allo stinco, subito sotto il ginocchio. Maledizione! Non resta che ritornare a Milano. Speranze e delusioni si alternano, nella vita di un allenatore ma, nel caso, c' è da rimanere secchi, aggrappati alle redini come ad un filo d' alta tensione.

Per Benetti era come se una mano gli avesse frugato il cuore. Sotto la pelle dello stinco dell' anteriore destro di Sirlad galleggiava un seme di riso, una frattura minuta, un' incrinatura. Il cavallo dovette rimanere ingessato, chiuso nel box, due mesi e mezzo, senza muovere un passo. Scuoteva la testa bionda, addentava la finestrella di legno. "Lunghe passeggiate, trotto, riproveremo un altro anno"

. Sopra il box di Sirlad c' era un riquadro risplendente di luce, ornato di due tende di bucato. L' abitazione di Di Nardo, attento ad ogni rumore. Passò l' inverno freddo e la primavera. Sirlad si ostinava a non abbandonare la sua mole senza sospetto su quell' anteriore destro, che Benetti senior sosteneva "pulito". Si decise, infine e rientrò.

In uno di quei mercoledì di San Siro, zeppi di competenza, piantò Mash ad infinite lunghezze. 1800 metri in 1' 49", nuovo limite della pista. La scuderia aveva scelto una classica internazionale l' Arc de Triomphe, ovviamente preceduto da un test esigente, il Ganay. Sirlad correrà bene il Ganay. Attaccherà al termine della discesa. Non gli riuscirà di contenere Trillon. Cederà il secondo posto a Balmerino, in fotografia. Finirà terzo.

Sarebbe stato inutile correre l' Arc de Triomphe anche perchè al via si schierava il grandissimo Alleged. Il suo addio italiano fu un comico non piazzato, nel Milano, a fianco di Sortingo, il fratellastro che la madre Soragna gli aveva dato, che aveva un orecchio stranamente candido, quasi glielo avessero immerso nel bianco di Spagna. (Sortingo vincerà per Benetti e per un proprietario giapponese il Milano dell' anno successivo).

Un mattino del ' 78, si affacciarono nel cortile della scuderia Benetti gli americani. Due signori alti, sicuri di sè, ottimisti. Statura, muscoli, dollari: un veterinario di fiducia visitò Sirlad. Cavallo di levatura internazionale, sentenziò, da operare alla laringe. L' acquisto per conto del signor Abram S. Hewett era cosa fatta. Operato nel Kentucky, Sirlad riacquistò una forma eccezionale.

Vittoria in una "graded" a Hollywood Park: nella Hollywood Gold Cup, Sirlad impegnerà allo spasimo uno dei più grandi cavalli in assoluto: Affirmed, (secondo a tre quarti di lunghezza dal fenomeno). "In Italia gli "uomini" chiedevano notizie di Sirlad. Entrato in razza nel 1980, Sirlad morirà alla Spendthrift Farm di Lexington, per una misteriosa infezione. L' ippica italiana ha voluto bene a Sirlad forse più che a Nearco e a Ribot, i cui successi erano tanto netti da suscitare una specie di rabbia. Il fascino segreto del cavallo sfortunato. - di MARIO FOSSATI

 
 

patrizio

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14 marzo 2000
Ciao Tony Bin, cuore d' Italia

Cominciò la carriera da «gregario», la concluse vincendo l' Arc de Triomphe Venerdì nell' allevamento di Yoshida un incidente (frattura delle vertebre cervicali) ha provocato la fine del 17enne stallone che per i colori di Gaucci inanellò 4 straordinarie stagioni, rese indimenticabili dall' impresa di Parigi nel 1988

UN ADDIO / E' morto in Giappone il purosangue che ci ha fatto tremare d' emozione Ciao Tony Bin, cuore d' Italia Venerdì nell' allevamento di Yoshida un incidente (frattura delle vertebre cervicali) ha provocato la fine del 17enne stallone che per i colori di Gaucci inanellò 4 straordinarie stagioni, rese indimenticabili dall' impresa di Parigi nel 1988 Cominciò la carriera da «gregario», la concluse vincendo l' Arc de Triomphe Venerdì nella «casa» che occupava fin dal dicembre 1988, la giapponese Shadai Farm della famiglia Yoshida, è morto Tony Bin.

Un incidente di paddock (rovesciamento con frattura di vertebre cervicali) lo ha portato alla fine: aveva 17 anni e nella sua carriera stalloniera, seguita a quella folgorante in pista, produsse ben 247 vincitori. Nato in Irlanda nel 1983 nell' allevamento di P.J.B. O' Callaghan, Tony Bin passò all' asta di Goff' s Sale di Dublino nell' ottobre dell' anno successivo «trovando» un prezzo di 3.000 ghinee (circa 7 milioni) dall' italiana «White Star» di Luciano Gaucci.

Ad acquistarlo materialmente fu il veterinario Giampiero Brotto, amico, consulente e «mente» di quella che al tempo era una delle formazioni più lanciate dell' ippica italiana. Brotto fu colpito dalla robustezza, dallo sguardo attento, dalla perfetta simmetria di quel puledro di taglia media. Il prezzo modesto era giustificato da un padre, Kampala, già svenduto dagli irlandesi in Nuova Zelanda dopo una carriera di appena 8 corse, tutte fra i 1000 e i 1600 metri. In realtà, come nipote di Zeddaan, Kampala risaliva a Nearco.

Fin qui la cronaca asciutta dell' inizio di un' avventura forse irripetibile che avrebbe trasformato quel puledro onesto al quale l' allevatore - come si usa nei Paesi anglosassoni - non aveva ancora dato un nome, nell' ultimo mito del nostro galoppo e non solo. Al nome provvide lo stesso Gaucci quando, di ritorno dall' Irlanda, passò a Parigi e si trovò al Louvre accanto a un vecchio pittore che stava terminando un' imitazione della Gioconda.


Quell' uomo cadente, logoro, affranto si chiamava Tony Bin ed era veneto. Lo invitò a casa sua, in una soffitta, e gli chiese un milione e mezzo di quel quadro vissuto. Gaucci ribassò a un milione, si portò via il quadro e un immenso rimpianto: aver quasi «sottratto» quel mezzo milione. Rientrato in Italia chiamò il puledro come quell' antico, esiliato pittore. Poi, tre anni dopo, nel giorno del vittorioso Arc gli venne incontro un uomo alto e ricciuto: «Sono il figlio di Tony Bin, mio padre è morto in febbraio».


Fu la grande amarezza di un giorno, il 2 ottobre 1988, indimenticabile per il nostro galoppo. Un evento atteso dal 1961, quando Molvedo passò vittorioso in una corsa che è la summa dell' intera annata agonistica europea e rende imperiosamente grande chi la domina.

Ancora di più se, come Tony Bin, quella corsa l' hai sfiorata l' anno prima finendo secondo e avendo poi la forza, l' audacia e i polmoni di ritentare vincendo per prenderti la rivincita sul favorito: Mtoto. Quell' anno fu l' ultimo dei 4 della carriera di Tony Bin, che dopo l' Arc corse da favoritissimo il milanese Jockey Club, ma non riuscì a dare la gioia ai 12 mila di S. Siro, come nella stagione precedente.

Le offerte dall' estero convinsero Gaucci a mandare il cavallo alla Japan Cup (dove finì 5° per una distorsione su un terreno troppo duro per lui) e dal Giappone non rientrò più, venduto a Zenya Yoshida per 3 milioni e mezzo di dollari, circa 5 miliardi.

Un moltiplicatore gigantesco: dai 7 milioni dell' acquisto a 8,4 miliardi, perché al prezzo di vendita vanno uniti i 3,4 miliardi (il record per un purosangue italiano) di somme vinte nelle 27 corse (15 vittorie) disputate. Ma quella di Tony Bin è una vicenda di cavalli e di uomini, dove il danaro ha la sua parte, ma non fondamentale.

Un accessorio di fronte alla gloria. Basti pensare all' avvio di carriera avvenuto nel settembre del 1985 a Capannelle. Un successo a cui ne seguì un altro, nel «Rumon», e poi il tentativo nel classico Gran Criterium dove Tony Bin non doveva essere che l' «aiutante in campo» di Alex Nureyev, il campione «presunto» di scuderia.

Forse a malincuore l' allenatore Luigi Camici, tecnico di capacità antiche e di eccezionale umanità, lo mandò a distruggere il favorito Ozopulmin: missione compiuta, ma di Alex (finito 8°) neppure l' ombra.

Mentre Tony Bin dopo una corsa che avrebbe asciugato i polmoni a chiunque era ancora terzo. Sandro Cepparulo Luigi Polito e il campione Vivere e galoppare insieme Uomini, tanti uomini nella sfolgorante avventura di Tony Bin. Luciano Gaucci e famiglia, Luigi Camici e famiglia, Giampiero Brotto e famiglia, Zenya e Teruja Yoshida più famiglie.

E poi la gente, tanta gente festante sulle balconate degli ippodromi: Roma, Milano, Ascot, Parigi, St. Cloud, Tokio. E come dimenticare i fantini? Dai francesi Henry Samani, Marcel Depalmas e Michel Jerome, ai nostri Lucio Ficuciello e Gianfranco Dettori, agli americani Steve Cauthen e Cash Asmussen, agli inglesi Walter Swinburn jr, Pat Eddery e John Reid, quello del grande giorno di Longchamp.

Tanti che si rischia di trascurarne uno piccolo e nascosto, ma anche così importante da essere il «cuore nel cuore» di Tony Bin.

Luigi Polito da Napoli, ieri mattina era il più felice del mondo per la sua Janestra, vittoriosa domenica a Capannelle nel «Tadolina», ma subito la giornata è cambiata: era morto Tony Bin, campione e compagno, anche se assieme sul programma di corse non andarono mai una volta. Fantino del mattino, o «worker jockey» come si dice nel galoppo americano, una sorta di «attore fuori scena», quasi come Tony Bin lo era stato all' inizio della carriera per conto del presto appassito Alex Nureyev. Due anime che si incontravano a meraviglia, speculari e affiatate quanto solo loro sapevano.


Anni indimenticabili assieme, da quando, dopo il 4° posto nel Derby, Luigi Camici e il veterinario Brotto decisero di affidare il «fuori corsa» a un fantino solo 20enne e senza pedigree, ma con la seria voglia di imparare. Così Luigi Polito salì in sella a quel cavallo pieno di temperamento e non ne scese più. Con il curioso retroscena che per il pubblico quel nome non esisteva proprio. «Era una persona di famiglia. Buono, forte, coraggioso


. Abbiamo sempre lavorato assieme, anche per preparare il secondo e ultimo Arc, e per lui io ho smesso di montare in corsa quasi una stagione. Sono andato dove andava lui, in Italia e all' estero, e non ho rimpianti. In fondo non apparire quando vivi un' avventura così intensa, non è poi tanto doloroso. Magari ci pensi un poco, ma sai di essere importante lo stesso».

A dire il vero ci fu un giorno che Luigi Polito stava per farcela, stava per montare davvero in corsa quel cavallo che conosceva meglio del salotto di casa sua. «Fu nel settembre del 1988 quando Tony Bin, ripreparato dopo il 3° posto nelle King George, doveva correre il "Tesio" a S. Siro e non si trovava un fantino di assoluto livello tecnico libero da impegni in quel giorno. Mi si aprì uno spiraglio e so che pensarono a me. In fondo chi lo conosceva meglio?

Ma arrivò John Reid. Vinsero e in coppia fecero anche l' Arc. Io fui contento lo stesso. Era davvero uno di famiglia». IL RICORDO DELL' ALLENATORE Camici affranto:«Ho perso il cavallo della mia vita» Il «sor Luigi» non ha dubbi: «Il più forte e intelligente che abbia mai allenato. La vittoria nell' Arc la gioia più grande, le sconfitte nel Jockey Club e nella Japan Cup ' 88 le amarezze» Di Tony Bin ormai sapeva poco: qualche occasionale notizia dal Giappone, l' ultima recapitatagli da Mirco Demuro al ritorno dal suo stage asiatico: «Tutto bene - aveva detto - e tanti saluti dalla famiglia Yoshida». Ora, all' improvviso, Luigi Camici è costretto a ricordare un amico che non c' è più: «Un amico, un figlio.

Fate voi.
Io so solo di aver perso il cavallo della mia vita: in senso sportivo perché mi ha regalato le gioie più grandi, ma anche in senso affettivo. Era buono e forte. Ma soprattutto intelligente, come solo i grandi campioni sanno essere». Di quel cavallo arrivato nelle sue scuderie mischiato nel gruppo, il 73enne allenatore ricorda tutto: «Modello, non appariscente ma proporzionato. Sapeva galoppare». A 2 anni, nel 1985, viene impegnato come gregario del più stimato e costoso Alex Nureyev: «Tony Bin si ritagliò presto una fetta di considerazione in scuderia.


C' era anche Alex Nureyev, pensavamo potesse affermarsi prima anche per una genealogia più importante. Tony Bin però non scese mai in pista come battistrada». Nel 1986 la svolta. Camici capisce cosa ha davvero dentro Tony Bin: «Arrivò quarto nel Derby, malgrado avesse galoppato addosso a un avversario

. Un vero miracolo. Dissi al signor Gaucci che quel cavallo aveva tanta stoffa. Rientrò in autunno, fini terzo nell' "I- talia" perché corse sciaguratamente in testa, una tattica che non sopportava. Poi fu secondo di Antheus nel Jockey Club». 1987.

Le prime gioie vere: «Ormai era il Tony Bin che avevo in mente: cambio di marcia terrificante e una freddezza da brividi. Infilammo una splendida tripletta: Ellington e Presidente a Toma, poi il Milano».


Seguì il secondo posto a St. Cloud, nel Gran Premio, e la sciagurata missione ad Ascot nelle King George, sempre con in sella Michel Jerome: «All' aeroporto inglese, Tony Bin fu vittima di una caduta: un pezzo di vetro gli procurò una ferita larga, perse litri di sangue. Lo recuperammo in fretta, ma in corsa non ci fu nulla da fare anche se lottò come un leone».

Meritato quindi il primo tentativo nell' Arc de Triomphe a Parigi, con in sella Cash Asmussen: «Fu straordinario. Purtroppo Trempolino ne anticipò la progressione.

Ci rifacemmo nel Jockey Club, poi la brutta sconfitta nel Roma. Avevano tutti paura che Tony non tenesse i 2800 metri e frastornarono Asmussen che non ci capì più nulla e si fece beffare da Orban». 1988. L' anno della gloria. «Tagliato» Asmussen, arriva Pat Eddery che vince ancora Presidente e Milano. Poi le King George. Tony Bin è terzo: «Eddery si è fatto chiudere. Mtoto, che aveva iniziato la sua corsa su Tony Bin, riuscì a sfuggirgli».


Via Eddery. Arriva John Reid, l' uomo della provvidenza: «Volevamo l' Arc, sapevamo che Tony Bin avrebbe potuto vincere. Lo preparammo a San Siro nel Tesio, a Parigi mi regalò la gioia più bella. Quando lo vidi cambiare marcia ai 300 finali mi vennero i brividi. Quella volta Mtoto restò dietro».

La carriera di Tony Bin finisce purtroppo con le due maggiori amarezze per Camici: «Perse il Jockey Club da Roakarad.
Lo affidammo a Dettori. Forse Gianfranco sentì la responsabilità e si fece intrappolare in una corsa con poco ritmo. Senza contare che Carrol House gli galoppò addosso».

Infine la Japan Cup. A Tokio, Tony Bin era già stato venduto agli Yoshida, ma corse ancora con la giubba di Gaucci: «Abbassai il binocolo all' ingresso in retta. Tony Bin era pronto a spiccare il volo, se li sarebbe mangiati tutti. Invece si afflosciò senza progredire. Capimmo il perché dopo: una storta accusata proprio nel momento cruciale. Una maledetta sfortuna». Come quella che venerdì gli ha portato via la vita.

Michele Ferrante

 
 

patrizio

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Filippo rob 

Dimenticando Giovanni Battista Vico, gli ippici contemporanei, ai “Corsi e Ricorsi Storici”, sintesi del pensiero del grande filosofo napoletano, hanno preferito le…corse e ricorse. Facciano pure, ma sbagliano, perché in nessun altro sport la storia e i relativi ricorsi contano come nella nostra disciplina. 

L’usa e getta non dovrebbe albergare in casa nostra. La lettura degli Albi d’Oro delle grandi corse, per chi è indenne dal virus equino, è un freddo elenco di nomi che dicono poco o niente. Per i “contagiati”, al contrario, è musica per i propri orecchi: Beethoven, Bach, Mozart, Vivaldi e via dicendo. Certo, non possiamo vantare le tradizioni antiche degli ippici del Regno Unito, ma anche noi abbiamo le nostre radici nel XIX secolo e per tutte e due le specialità. 

Nomi come Andreina, Guido Reni, Cima da Conegliano, Ortello, Nearco, Orsenigo, Ribot per il galoppo e Vandalo, Elwood Medium, Hazleton, Muscletone, Aulo Gellio, Mistero, Tornese, Crevalcore, fino a Varenne, per il trotto, devono essere il nostro orgoglio perché solo valorizzando la tradizione, che non ci manca, si può battere l’ippica dei numeri, che non ci piace, a tutto vantaggio dell’ippica dei nomi che, invece, ci piace molto. 


E a “frugare” nel passato, fra genealogie ed albi d’oro, si scoprono eventi curiosi e bellissimi, ricorsi che sono la vera essenza del nostro sport e che non sono solo passato, ma presente vivo e vegeto. 
Delle bellissime storie. Ed è di una di queste che vi vogliamo parlare premettendo subito, però, che chi scrive, della “novella” che vi racconteremo, ne ha già parlato agli inizi degli anni ’80, ma è stato poi necessario ritornarci sopra, in un paio di occasioni, per aggiornare una storia che ha dell’incredibile. E questa è la quarta 


. L’idea ci venne già quando Filipp Roc con Davide Nuti si impose nel “Firenze” 2006, inserendo il suo nome nell’Albo d’Oro della più antica classica fiorentina, esattamente 45 anni dopo il successo di Italo che, guidato da Ugo Bottoni, per i colori bianco verdi di Claudio Toniazzi, vinse, appunto, il “Firenze” nel 1961, prevalendo sul mangelliano Gualdo e sull’altro toscano Rubello, questi in pista per i colori della scuderia Valserchio. 

Poi la costanza di rendimento e l’esplosione in questa primavera di Filipp Roc, al record di 1.11.8 nel Regione Siciliana, ci hanno spinto a ricordare l’ascendenza del portacolori della Sant’Eusebio che, insomma, l’avrete capito, più di una parentela lo lega ad Italo. Ed è proprio questa la bella storia che, però, comincia molto lontano, addirittura negli anni ’20. 



I Toniazzi, papà Claudio e i figli Carlo, Giuseppe e Pietro, erano pisani e avevano l’ippica nel sangue, naturalmente il galoppo. Barbaricina, dove, per il dolce clima mediterraneo, le grandi scuderie del nord italiano, ma anche europeo, mandavano a svernare i loro cavalli era lì, fuori le mura, a due passi dalla Piazza dei Miracoli, e loro, i Toniazzi, erano frequentatori assidui del Prato degli Escoli. Ed erano anche molto amici dei grandi allenatori e fantini del tempo. Così, nel 1922, decisero di diventare proprietari e, su consiglio di esperti, acquistarono per 20 mila lire – non poco per quei tempi - il tesiano Vasari che, montato da Polifemo Orsini, vinse a ripetizione e, in quel periodo, fu uno dei migliori cavalli della Toscana. 


E, proprio a Vasari, è legato un episodio che mette a fuoco la passione dei proprietari di allora. Una volta Vasari finì in parità con un certo Montenero, che era di proprietà del colonnello Guglielmo Locatelli. La parità, non essendoci a quei tempi il fotofinish, fu stabilita dal giudice d’arrivo. La decisione, però, non convinse il Locatelli che sfidò a singolar tenzone Vasari. Così i due si ritrovarono e questa volta Vasari vinse di diverse lunghezze. 



Successivamente la famiglia si trasferì a Firenze e, subito dopo la guerra, nella seconda metà degli anni ’40, Claudio decise di provare l’esperienza del trotto ed acquistò Primarosa, una bellissima giumenta da Spencer Mc Elwyn e Asmara, questa figlia di Civetta, da Jockey. 


Primarosa fu affidata al pisano Guido Nesti e la cavalla vinse a ripetizione su tutti gli ippodromi d’Italia fino al termine dei 7 anni. Quando smise l’attività in pista, fu deciso di tenerla come fattrice e fu mandata a Caproni e nel 1950 nacque Sivigliana. Poi, nel 1951, Primarosa morì di parto e così Sivigliana rimase l’unica erede di Primarosa. Ma fu un disastro. 

Non era assolutamente da corsa e i Toniazzi pensarono anche di venderla, ma la riconoscenza per Primarosa li fermò e decisero di provarla in razza. E fu la loro fortuna. Il primo prodotto fu Iriola che, con la guida di Nello Bellei, fu una protagonista sulle piste toscane nella seconda metà degli anni ‘50, poi Sibarita, quindi, nel 1957, dal mangelliano Ilario, come Iriola, nacque un maschio che Claudio, per l’amicizia che lo legava ad Italo Marchi, decano dei giornalisti ippici della Toscana, chiamò, appunto, Italo. 

E il puledro, con Ugo Bottoni, fu un frequentatore delle classiche giovanili e vinse, appunto, il “Firenze”1961. Nel 1962 papà Claudio morì e all’allevamento si dedicò a tempo pieno Carlo che, comunque, si occupava anche dell’impresa di famiglia insieme al fratello Pietro, il quale era proprietario di cavalli, ma ad ostacoli, uno per tutti Sano di Pietro, vincitore di una Gran Corsa di Siepi alle Capannelle, e allevatore di purosangue in piano. Giuseppe, invece, pur appassionato di ippica anche lui, era un affermato medico pediatra. 


Sivigliana, dopo Inagua, nel 1964, dette alla luce, da Tornese, Ala di Vento e nel 1966, da Nievo, nacque Arundo Donas, che fu l’ultimo prodotto importante della figlia di Caproni. Arundo Donas, formatosi alla scuola di Alfredo Biagini, creatore di Cinquale, vinse subito al debutto, poi, siccome, per struttura, era un soggetto più adatto alle piste del chilometro, fu affidato successivamente a Giuseppe e Vittorio Guzzinati confermando le attese. 

Arundo fu un buonissimo cavallo, frequentatore con successo delle classiche giovanili e mantenendo, anche da anziano, un rendimento più che pregevole. Ma torniamo ad Ala di Vento, che non piaceva molto a Carlo il quale, data l’ottima genealogia, la portò alle Aste nella speranza di venderla. Non ci fu nessuna richiesta. Così la provò in corsa, i risultati ci furono ed Ugo Bottoni era entusiasta di questa cavalla, ma Carlo, a quel punto, nonostante l’opposizione dell’Ammiraglio, che la riteneva matura per il salto di qualità, la ritirò dalle corse e la mise in razza. 

E la decisione, ancora una volta, fu giusta. Ala di Vento dette Braglia, Mazzadoro, Tinta, Senape, Aspettami e Corazzata. Fra queste, tutte da corsa, meritano un cenno particolare Tinta e Aspettami che,oltretutto, si rivelarono brave anche in corsa. Verso la fine degli anni ’80 Carlo morì e il materiale fu venduto. E Tinta e Aspettami emigrarono al nord, dove si sono distinte a ripetizione con risultati eccellenti. 



Tinta, fra l’altro, ha dato Lussia D’Asolo, madre, tra gli altri, di Scheggia di Vetro, 1.15.7 e Zini, 1.16.9, Noria D’Asolo, madre di Badoglio, 1.13.4, e Toto D’Asolo, 1.11.6. Aspettami è stata dirompente : Orson Roc, 17.3, Rosell Roc, 1.19.1, Saba Roc, 1.17.6, Tosca Roc, 1.16.2, poi Zaireska Bar, 1.13.8 e vincitrice classica, Baireska Bar, 1.16, e Conte Bar, 1.16.8. Ma quello che è impressionante è la grande capacità di queste fattrici di trasmettere e migliorare. Infatti Zaireska Bar, messa in razza, ha dato Exile Bar, 1.13.7, Fenomeno Bar, 1.12.8, Gibernau Bar, 1.14.6 e Infinito Bar, 1.14.1. E ora Rosell Roc, da Aspettami, da Ala di Vento, da Sivigliana, da Primarosa: Dumper Roc, 1.12.7, Aurora Roc, 1.14.7, Bitter Roc, 1.15.4 , Ciquita Roc, 1.15.5, Euforia Roc, 1.17.6 , ma soprattutto l’eccellente Filipp Roc, 1.11.8, con il quale, per ora, chiudiamo il cerchio del nostro “aggiornamento”. 


Tutto questo è merito di Sivigliana che, solo per un motivo sentimentale, legato alla madre Primarosa, per poco non è finita a tirare la carrozza o giù di lì. C’è da non credere a questa “realtà romanzesca”, ma i Toniazzi, in quella Sivigliana piccola e bruttina, riversarono tutto il loro affetto e la loro passione e furono ampiamente ricompensati. 


Certo, nelle recenti “esplosioni” molto hanno inciso le azzeccate scelte degli incroci attuati dai signori Rocca e Troncone, ma la base c’era e, appunto, si chiamava Sivigliana che, non a caso, aveva nelle vene il sangue di Jockey. Non possiamo concludere senza un ultimo accenno alla famiglia Toniazzi che, ormai tutti scomparsi quelli della vecchia generazione, è rappresentata oggi dai fratelli Paolo e Claudia, figli di Pietro, che, senza più interessi diretti nel settore, seguono con passione incredibile i discendenti di Sivigliana e, in particolare, l’ultimo grido Filipp Roc. Come se fosse uno di famiglia. Cari amici, questa è l’ippica. Piaccia o no. 

Antonio Berti 

 
 

patrizio

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di MARIO FOSSATI 
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ROMA - Varenne, trottatore italiano voglio dire italiano di nascita, allevamento, proprietà, guida tenta, oggi, un exploit che lo consegnerebbe agli annali quale secondo vincitore interamente nostro del Grand Prix d'Amérique. 

Dalla vittoria di Mistero (1947) è trascorso più di mezzo secolo: 54 anni per l'esattezza. Varenne è il favorito del Grand Prix. Vincendo, non solamente porterebbe a compimento una difficile missione ma conquisterebbe, pure, l'Amérique sulla classica pista di Vincennes nella sede più appropriata, naturale (non già sullo scorrevole anello di Enghien, su cui dovette esibirsi Mistero per l'inagibilità temporale del plateau). 

L'Amérique è la storia del trotting. Mi duole di non poterci essere. Vincennes è un teatro più grande dei suoi primi attori così come la Scala è più grande della Callas. 

L'Amérique si corre l'ultima domenica di gennaio. Ogni qualvolta uscivo dalla stiva tiepida delle sue enormi tribune, avevo la sensazione di entrare nell'inverno di Parigi (un inverno di cristallo) e di trovarmi davanti ad un autentico, vastissimo campo di battaglia, un terreno di confronto, che avrebbe dimostrato la validità di un autentico crack. 
Il trotto come epopea. La pista dal profilo nero, il piccolo bosco, la bretella, le Petit Tornant, il ritorno al piano, la discesa, la salita, la grimpette (sulla distanza di 2.600 metri, due rampe spezzacuore). E, al termine, le dernier tornant[e il traguardo. Il quadro finale dell'Amérique mi ha sempre commosso: la torma spezzata, con i cavalli sfilati e sfiniti, a cui i guidatori hanno domandato un maximum. Infine, il vincitore, che pare sempre che voglia addentare il suo fiato caldo. 

Il trotto, quest'azione diagonale aerea, potente, elegante, nell'Amérique è tattile, lo si può toccare con mano. Il conte Paolo Orsi Mangelli era solito dire che noi, ai francesi, dovevamo molto, non ultimo l'averci duramente trattato per ragioni di rivalità schietta]. Il trottatore francese (diceva il vecchio Conte) è sempre stato un trottatore atleta. La sua selezione è dovuta alle piste tutte faticose e sino a qualche decennio fa di fondo naturale, terra battuta ed erba. 

La prima Vincennes mancava addirittura di sottofondo: sotto una spessa velatura di carbonella, pesava un sabbione alto una spanna che, con il tempo buono, sfuggiva agli zoccoli dei cavalli. Con il cattivo tempo si trasformava in una palude vischiosa, con una discesa resa più pericolosa dall'instabilità: e una salita di oltre un chilometro, che terminava a cinquanta metri dal palo. Su quella pista, vinse Hazleton. Era il 1931. 

Il proprietario Daniele Palazzoli, un Peck italiano, aveva concertato la spedizione in Galleria a Milano, con il fido ed accorto driver austriaco Otto Dieffenbacher. Dominarono e la sera, a Parigi, i danée si trasformarono in un fiume di franchi e i franchi in un fiume di champagne. 

Il terzetto HazletonDieffenbacher Palazzoli tornò l'anno dopo. Rivinse. Quel giorno nacquero una tradizione e una leggenda. Il Prix d'Amérique corsafaro: il Prix d'Amérique [ab]la course des Italiens. Muscletone, De Sota, Mistero, Mighty Ned, Newstar, Nike Hanover, le tappe di un trotting in terra di Francia. 

Quindi anni di silenzio. La serie degli americani nevrili che la pista allungava alla maniera delle lepri sembrò avere esaurito la serie. Il fatto è che i francesi avevano cresciuto e fissato le caratteristiche di una razza, che veniva da molto lontano. Cavalli catafratti, sorrideva la concorrenza, amazzoni o virago se femmine, i carrozzieri normanni, che spesso demolivano (aggiungo io) i lucidi... grilli Usa. 

Gli sfottò erano frequenti, comunque, garbati. In Italia il professor Primo Castelvetro aveva posto le basi per la formazione di un trottatore francoamericano, che sarebbe stato buonissimo per le nostre piste. L'Amérique era divenuto, intanto, una esemplificazione della forza del matriarcato in Francia. 

Cancanniere, Gelinotte (due volte) Masina, Newstar, Ozo (due volte). Contro queste stelle, confortato e sospinto dalle mani salve di Sergio Brighenti, si è battuto allo stremo Tornese, il cavallo d'oro. 
La pista di carbone negli anni Cinquanta non si era ancora addolcita, la chiamavano l'inferno dei trottatori. Ho vissuto il film delle avventure parigine di Tornese. 

Millenovecentocinquantasette: forfait: i suoi fragili zoccoli non avrebbero retto la rena ghiacciata. 
Millenovecentocinquantotto: folle volo lungo la discesa e resa a metà salita. Millenovecentocinquantanove: forma incerta e saggia condotta di prudenza: terzo, dietro il bellissimo Jamin (la cui nonna era una purosangue) e a Icare IV. 

Millenovecentosessanta: sembrava la volta buona seguire Hairos II e batterlo in arrivo, ma tra i piedi c'era uno strano cavallo Iskander. Hairos II il franco olandese, che con un trotto che trotto non era, beffò Tornese, secondo. Tornese venne davvero derubato. 
Millenovecentosessantuno, ultimo tentativo: a bruciare Tornese, Masina: una femmina leggera. malvagia, la definirà Brighenti. 

Io rivedo sempre Tornese, la sua silhouette sullo sfondo nero di carbone della pista di Vincennes: un prodigioso giocattolo animato. Mi auguro che Varenne lo voglia onorare ai suoi limiti. Due vittorie decisamente italiane, vanno segnalate: 1962, Newstar, allenata, acquistata, guidata da Walter Baroncini per la scuderia Olsa. Con un allungo magistralmente piazzato da Walter, batté Masina. Millenovecentosettantotto: Dart Hanover, preparato in Italia da William Casoli. Linsted impiegò la tattica (punta finale) che Casoli aveva preteso e gli aveva insegnato. Un successo da ascrivere al professore. 

(28 gennaio 2001) 



 
 

patrizio

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Varenne, l'ultima passerella in Italia 



Il Capitano ha corso a Napoli prima dell'addio alle piste il 28 settembre a Montreal, tappa di chiusura della World Cup 



MILANO - E' bello, ricco e famoso. Varenne, il fenomeno dell'ippica mondiale, ha conquistato tutti e non sarà facile rinunciare a un cavallo come lui. Il 28 settembre a Montreal, in Canada, dopo aver superato oggi senza problemi a Napoli la prova di qualifica, il Capitano darà l'addio alle piste e chiuderà la sua straordinaria carriera con l'ultima tappa della World Cup, che si è aggiudicata con due corse d'anticipo lo scorso 10 agosto a Stoccolma. 

Varenne è già leggenda, è il capitolo più bello della storia del trotto italiano: oltre ad essere quasi imbattibile in pista è anche il più conosciuto e amato cavallo del mondo. Tutti sanno chi è, tutti vorrebbero vederlo correre e qualcuno lo ammira a tal punto da chiamare suo figlio con lo stesso nome. 












LA STORIA 


- Il Capitano è nato il 19 maggio 1995 nell'allevamento Zenzalino a Copparo, in provincia di Ferrara. La madre del campione era Ialmaz, nata dieci anni prima nello stesso allevamento e scomparsa recentemente, il padre invece è lo stallone americano Waikiki Beach. Sandro Viani, titolare dell'allevamento Zenzalino, e Jean Pierre Dubois erano sia allevatori sia proprietari di Varenne. Il primo, non credendo nelle potenzialità del puledro, ha venduto quasi subito per 10 milioni delle vecchie Lire la sua «metà» del cavallo al più fiducioso Dubois, che lo ha portato nel suo allevamento in Normandia. 


- Un anno più tardi il Capitano è ritornato in Italia, a Bolgheri, cittadina toscana famosa per i "cipressi del Carducci". Nel 1998 ha sostenuto la prova di qualifica alle corse con un tempo "normale", 1.19.7, e ha debuttato a Bologna guidato dallo svedese Roger Grudin. Varenne ha attirato l'attenzione di tutti fin dalla prima corsa: nonostante abbia rotto in partenza è riuscito a concludere la gara recuperando sugli avversari. Subito si sono interessati a lui molti allenatori tra cui Pietro Bezzecchi e Giancarlo Baldi, che però hanno rinunciato all'acquisto per un chip, un problema cartilagineo, che il futuro «Capitano» aveva a un nodello. 


- Il driver Giampaolo Minnucci, rimasto impressionato dalla prova di Varenne, ha convinto Enzo Giordano, appassionato di cavalli e cambista napoletano, a comprarlo anche se il prezzo imposto da Dubois, 150 milioni di Lire, sembrava molto elevato. Da allora Varenne vive nel centro di allenamento di Tor San Lorenzo, vicino a Roma. Pio Iannarelli è il suo veterinario, Jori Turia il suo trainer, Iina Rastas la sua groom, Esa Myllymaki il suo maniscalco, Tommy Lindgreen il suo massaggiatore e Giampaolo Minnucci il suo driver. 






LA CARRIERA - Alle fine dei tre anni Varenne ha cominciato la sua scalata: ha vinto il Derby a Tor di Valle, l'ippodromo di Roma, battendo il superfavorito Viking Kronos, allora considerato il nuovo fenomeno del trotto italiano. Nel 1999 il Capitano è arrivato primo quattordici volte, vincendo anche il Gran premio delle Nazioni a Milano contro Moni Maker, famosa trottatrice americana. 


Con il nuovo millennio il campione indigeno ha cominciato a viaggiare ed è sceso in pista per sfidare i più forti cavalli del mondo. Varenne, maltrattato dalla giuria per molte partenze richiamate, è comunque arrivato terzo nel Grand Prix d'Amerique vinto da General Du Pommeau. Ad Agnano si è aggiudicato il «Lotteria», gran premio che gli italiani non vincevano da 26 anni. Nel 2001 il Capitano è diventato un "personaggio pubblico": Maurizio Ughi, presidente dello S.N.A.I, il Sindacato Nazionale delle Agenzie Ippiche, ha deciso di investire 3 miliardi e mezzo per il suo acquisto e altrettanti per una campagna pubblicitaria senza precedenti, che ha contribuito a rilanciare l'ippica italiana. Varenne è imbattuto fino a giugno: ha vinto l'Encat a San Siro, il Grand Prix d'Amerique a Parigi, battendo sia General Du Pommeau sia Fan Idole. 



L'ippodromo di Vicennes era gremito di italiani che festeggiavano una vittoria attesa da 55 anni, infatti l'ultimo nostro indigeno a trionfare nella capitale francese era stato Mistero nel 1946. In tutto l'anno il campione è stato battuto solo una volta a Milano nella tappa del circuito modiale, che comunque ha vinto. Nel 2002 è diventato un mito vincendo ancora l'Amerique e facendo, per ora, poker nella World Cup. 




I RECORD - Varenne è il più ricco trottatore mai esistito sulla Terra. Infatti con la vittoria della World Cup 2002 ha superato in somme vinte l'americana Moni Maker, prima in questa speciale graduatoria fino a un mese fa. Il Capitano detiene anche il record del mondo sui 2.100 metri. Il 24agosto 2002 a Parigi, nella quarta tappa della Coppa del Mondo, ha firmato il primato mondiale sulla distanza, con una media al chilometro di 1'10''8, polverizzando il record precedente che era di 1'11''3. 




IL FUTURO DEL CAPITANO - Sarà stallone a partire dalla prossima stagione. Sono tante le aspettative sui puledri che nasceranno, ma i figli del Capitano saranno all'altezza del padre? Almeno uno supererà il campione? Molti credono sia possibile, altri invece sostengono che Varenne sia un caso unico e irripetibile. Coprirà circa 150 fattrici in Italia, tra cui Athena Egral di proprietà di Giordano, e un centinaio all'estero, ma non è ancora certo dove sarà la sua stazione di monta. Sembrava infatti che l'esclusiva mondiale di «Varenne stallone» fosse di Marco Folli, allevatore di Mordano, ma lunedì 16 settembre alle aste di Settimo Milanese è trapelata la notizia che il campione potrebbe funzionare a Vigone nell'allevamento Il Grifone di Roberto Brischetto. 


Polemiche, discussioni, minaccie di querele che probabilmente si concluderanno con un accordo che prevede Varenne a Vigone per le fattrici italiane e l'incarico per la commercializzazione all'estero del seme a Marco Folli. 



CURIOSITA' - Varenne è diventato un mito, attira l'attenzione di tutti. Qualunque oggetto appartenuto al Capitano ha un valore commerciale. Un casco di Minnucci, per esempio, è stato acquistato per 25 milioni di Lire da Viani, che poi lo ha regalato al Centro Studi Trotto di Migliarino, vicino a Ferrara. Varenne è una Star a quattro zampe e ama viaggiare in aereo con «tutta la sua corte; veterinario, fisiologo e parrucchiera personali», come si legge sul fumetto realizzato da Ermanno Mori, ideatore e curatore del Museo Storico del Trotto, e illustrato dalla pittrice Dafne Ciarrocchi in omaggio al Capitano e a tutto il suo team. 

TUTTI PAZZI PER VARENNE - Sono moltissimi i tifosi disposti a seguire il Capitano a Parigi, New York, Stoccolma e Montreal. Qualcuno sarebbe anche disposto a pagare per accarezzare il cavallo più famoso del millennio. Alcuni esempi mostrano quanto Varenne sia nel cuore dei suoi fans. Qualcuno si è fatto scolpire dal parrucchiere il nome del Capitano sulla nuca, altri seguono il loro idolo ovunque e "saccheggiano" Minnucci dopo ogni corsa. Il caso più eclatante invece riguarda un padre di Boscotrecase, paesino in provincia di Napoli, che ha deciso di chiamare il suo terzogenito, nato il 9 luglio scorso, Varenne Gianpaolo in onore del suo mito e del suo driver. Un caso simile si era già verificato solo negli anni '50 quando un bambino era stato chiamato Ribot in onore del campione mai dimenticato. 

Lucrezia Caravita 




 
 

patrizio

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EBSERO MO



La notizia è di quelle che ti riportano con il pensiero al passato, anche se non sei così tanto vecchio. 

Ebsero Mo è morto. Sabato scorso, mentre si trovava nel suo paddock, si è procurato una frattura ad una zampa e, come si sa, per un cavallo può essere un danno irrimediabile. Così, con molto dolore, è stato chiesto al veterinario di sopprimerlo con un'iniezione. 

Ebsero aveva 20 anni era nato il 31/10/1982 da papà Beret e mamma Serale nell'allevamento del capitano Ermanno Mori, sito in contrada Asola a Civitanova Marche, e lì ha terminato la sua esistenza. 

Questo cavallo è stato importante per il suo straordinario allevatore, ma anche per gli appassionati ippici marchigiani e per il sottoscritto. Ricordo un giorno di 17 anni fa, stavo sbirciando la solita seconda pagina della Gazzetta dello Sport, quella dedicata all'ippica, in cerca, tra i risultati delle corse, dei miei affezionati "MO". Mi cade l'occhio su un articoletto che parla di una trasferta a Monaco di Baviera di due cavalli italiani di 3 anni. 

All'epoca l'ippica italiana era ben poca cosa in Europa e apparizioni all'estero erano davvero degli eventi eccezionali. Con mia grande sorpresa, leggendo i due nomi scopro che uno di essi era un certo Ebsero Mo. In quella corsa i nostri indigeni, oltre ad Ebsero c'era pure Esotico Prad, non erano accreditati con molte chance. Non ricordo i nomi degli altri partecipanti, tranne uno: Diamond Way, divenuto, come sappiamo, stallone di importanza Europea. Incredibilmente Ebsero, il cavallo dalla genealogia plebea, vinse quella corsa, battendo fior di campioni con un allungo memorabile in retta d'arrivo. 

Qualche anno fa, quando il capitano mi ha onorato della sua amicizia ho potuto rivedere le immagini di quella corsa e l'emozione è stata grande come il giorno della prestigiosa vittoria. Da quella volta ho seguito tutte le corse di Ebsero, anche se l'unica corsa dal vivo che ho potuto vedere fu la vittoria nel Premio Presidente della Repubblica al Montebello di Trieste. In quella occasione filò in testa con il numero 2 e tenne a bada fin sul palo Esotico Prad ed Eliano, gli altri grandi della leva 1982. 

La storia di Ebsero, poi, è piuttosto particolare: la filosofia del capitano Mori è quella di allevare e portare in corsa i prodotti e poi di venderli subito; al figlio di Beret, invece, capitò un incidente in allenamento che si rivelò, grazie alle prodezze che avrebbe compiuto, la fortuna dell'allevamento. In visita al Museo del trotto, infatti, ho potuto vedere una foto di Ebsero ed Ermanno Jr al mare, che dista poche centinaia di metri dai paddock, nel tentativo di realizzare un recupero che fortunatamente avvenne con successo. 

Dopo Leif Berggren, che lo condusse alla vittoria in Germania, il cavallo fu affidato alle mani sapienti di Giancarlo Baldi e con lui vinse a 4 anni Il Continentale 1.16.3, Premio della Vittoria 1.17.5, Premio Presidente della Repubblica 1.16.3, Premio Toscana 1.15.3, Premio Due Mari 1.14.2. Fu detentore per lungo tempo del record per gli indigeni sulla media distanza in pista da mezzo miglio con 1.15.3 e vinse in carriera 597 milioni con record 1.14.2. 

Conclusa la carriera agonistica, il campione marchigiano ha potuto godersi un meritato e piacevole riposo, ritirato stabilmente sulle sue colline civitanovesi, dove iniziò la carriera stalloniera presso l'allevamento in cui era nato. 
La prima annata di monta 1987 (lettera "M") lasciò tutti sorpresi: con solo 5 certificati depositati ci furono 4 cavalli sotto all'1.18, e uno di essi, Mefio Mo, vinse oltre 300 milioni di Lire con un record di 1.15.1. 

Le scelte dell'allevamento, che in quegli anni erano più per il numero che la qualità, hanno fatto tardare la nascita di un degno erede. Bisogna aspettare la leva 1991 per trovare un potenziale campione al nome di Redol Mo, la cui carriera fu purtroppo ridimensionata da un incidente a 3 anni dopo che aveva corso 1.14.4 a 4 decimi dal record della generazione; ripresosi dall'infortunio Redol ha concluso la carriera a 10 anni con 70 vittorie, un vero record, e quasi 700 milioni di lire vinti! 

E' l'anno seguente che nasce l'erede che tutti attendono, seppure con un certo scetticismo: Sec Mo, il cavallo che ha fatto sognare e godere di gran gioia tanti appassionati. Dopo un'ottima prestazione a Cesena, Sec Mo fu acquistato da Sinistri e portato a Roma. La sua carriera giovanile è stata entusiasmante fin da subito vincendo a 2 anni Allevatori 1.16.2 con un volo strepitoso sulla dirittura opposta che tutti ricorderanno e che poi divenne il suo marchio di riconoscimento mancandogli doti di partitore. 
A tre anni l'apoteosi: Memorial Guido Berardelli 1.16.2, Città di Napoli 1.14.1, Gp Italia 1.15.6, GP Nazionale 1.14.8, Derby del Trotto 1995 1.15.1 sempre interpretato da Glauco Cicognani. A 4 anni con le mani di Carlo Bottoni vince Città di Taranto 1.15.4, Premio Regione Campania 1.14.9, Continentale 1.14.6. Da anziano cambia diverse mani ed è vincitore del Riccardo Grassi e Città di Padova nonché piazzato in numerosissimi Gran Premi. Chiude la sua carriera con 76 corse disputate 22 vittorie 24 piazzamenti, record 1.12.4 e somme vinte pari a Lire 2.469.350.000 che lo collocava al secondo posto in graduatoria degli indigeni più ricchi prima dell'era Varenne. 

Detto del più famoso erede di Ebsero, non si possono non ricordare anche i suoi tanti figli che corrono nelle piste di tutta Italia, e che gli ultimi nasceranno quest'anno superando il numero totale di 400 prodotti. 


 
 

patrizio

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19 dicembre 1999 


«Wayne Eden sei stato unico» 
Il driver Fontanesi ricorda il campione morto a 29 anni: «Che battaglie con Delfo» * L' americano, importato in Italia nel 1975, è morto in Toscana, dove anni fa venne trasferito dopo essere stato salvato dal macello. Affranto il suo guidatore e preparatore: «Io e lui una cosa sola» 


L' OMAGGIO / Il trottatore che ha segnato quasi un decennio «Wayne Eden sei stato unico» Il driver Fontanesi ricorda il campione morto a 29 anni: «Che battaglie con Delfo» L' americano, importato in Italia nel 1975, è morto in Toscana, dove anni fa venne trasferito dopo essere stato salvato dal macello. 

Affranto il suo guidatore e preparatore: «Io e lui una cosa sola» Qualche anno fa era stato salvato dal macello, stavolta Wayne Eden ha alzato bandiera bianca. La vecchiaia l' ha vinto a 29 anni, sui prati di Spianate di Altopascio (Lucca) dove l' appassionato Piero Guerri lo aveva messo a riposo, dopo averlo «ritirato» risparmiandogli una morte immeritata 

. Wayne Eden se n' è andato sei mesi dopo Vincenzo Gasparetto, l' indimenticato manager che lo aveva importato dagli Stati Uniti nel 1975 per conto della scuderia Mira II di Piero Giudici. Da allora e fino al 1978, il figlio di Speedy Rodney fu grande protagonista del nostro trotto, battagliando con gli altri campioni di quel periodo, capeggiati da Delfo, l' indigeno di Sergio Brighenti col quale Wayne si divise il tifo dell' allora numerosissima e infiammata platea di San Siro. In coppia con Wayne Eden, per quasi tutto il cammino agonistico, ci fu Anselmo Fontanesi detto il «morino». Autentica simbiosi, tra i due, tanto è vero che le poche volte in cui cambiò allenatore, Wayne Eden smise di essere il fenomeno che era 

. E, puntualmente, il suo cammino tornava a ricongiungersi con quello di Fontanesi. Il «moro», col cuore in gola, ricorda il suo Wayne Eden: «Fu la grande invenzione di Vincenzo Gasparetto. Iniziò a seguirlo negli Stati Uniti, attirato dal suo rendimento alterno. 
Un cavallo poco sfruttato. La prima trattativa agli inizi del 1975: Wayne era a Parigi per disputare l' Amèrique, ci chiesero una follia, qualcosa come 500 milioni. Gasparetto mi disse: "Lasciamo perdere, vedrai che torneranno loro a offrircelo". Il cavallo corse male a Parigi, e pochi mesi dopo ce lo tirarono quasi dietro: meno della metà della metà di 500 milioni». La favola inizia, con una mossa azzeccata. Fontanesi rivela: «Wayne Eden è stato sempre famoso per la sua disarmonia nelle sgambature. Inguardabile di passo, un poco meglio al trotto leggero. Ma quando cambiava marcia le sue gambe diventavano mulinelli e faceva sognare. Il motivo di tutto ciò erano i passaggi limitatissimi, che lo affliggevano alle andature moderate e, in un primo tempo, anche in corsa prima che tutto venisse risolto. 

Come? Una ferratura azzeccata e un sulky speciale che lavorava sulla schiena del cavallo per costringerlo ad allargare il posteriore, migliorando così il passaggio. Quel sulky lo conservo ancora in scuderia. Concorse a far diventare Wayne Eden una macchina da corsa, con un computer al posto del cervello. Ma questi difetti, purtroppo, Wayne se li trascinò come stallone. Per questo ha fallito». In 4 anni tante soddisfazioni, con la parentesi del clamoroso rapimento dell' agosto 1975: «La sua coda dritta sul mio viso. 

Ero costretto a guidare senza occhiali e dovemmo alzare il sediolo del sulky per consentirmi una visuale minima. È l' immagine che avrò sempre stampata nel cervello. Io e quel cavallo eravamo una cosa sola». Delfo, il grande avversario: «Quante battaglie. La sconfitta nella finale dell' Europeo di Cesena del 1976, ma anche il successo nel Lotteria dell' anno dopo. A Napoli Delfo era affidato a Vivaldo Baldi e suo figlio guidava The Last Hurrah. Tentarono di metterci in mezzo, ma quel giorno Wayne era troppo forte». Un altra perla: «Il Nazioni del 1976. Timothy T sembrava imbattibile, noi ci riuscimmo. 

La tribuna di San Siro sembrava impazzita». Uno degli ultimi ricordi: «Wayne Eden era agli sgoccioli della carriera. Mi venne riaffidato dopo una breve parentesi da un altro collega. Rientrammo a San Siro, col n° 12. Wayne prese posizione, lo spostai al largo all' ingresso in retta e mentre lui volava a vincere io mi tolsi il casco per salutare la tribuna». Michele Ferrante Nel ' 75 il cavallo fu vittima di un clamoroso rapimento «Il riscatto venne pagato con una colletta di 12 milioni» Nella notte di Ferragosto del 1975, poco dopo aver vinto il Città di Montecatini, Wayne Eden sparì dal suo box, vittima di un clamoroso rapimento che riempì le prime pagine dei giornali. Il suo driver Anselmo Fontanesi racconta come avvenne la liberazione: «Vincenzo Gasparetto portò avanti la trattativa 

. I rapitori chiedevano tanti soldi, fece capire loro che non avrebbero mai ottenuto la cifra richiesta, perché il cavallo era assicurato per alcune centinaia di milioni e i proprietari non erano intenzionati a sborsare una lira per riaverlo. Alla fine io e Gasparetto mettemmo assieme dodici milioni e li offrimmo ai rapitori. Li consegnò personalmente Vincenzo Gasparetto e l' 8 di settembre Wayne fu ritrovato a Montescudaio, in provincia di Pisa». Le cronache di quei tempi riportano che si trattava del quarantesimo rapimento dell' anno. Gli altri 39 erano ovviamente delle persone. 
Ferrante Michele 
 
 
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